Testo della poesia
E gli uomini vollero / piuttosto che le tenebre la luce (Giovanni, III, 19)
1. Qui su l’arida schiena
2. del formidabil monte
3. sterminator Vesevo,
4. la qual null’altro allegra arbor né fiore,
5. tuoi cespi solitari intorno spargi,
6. odorata ginestra,
7. contenta dei deserti. Anco ti vidi
8. de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
9. che cingon la cittade
10. la qual fu donna de’ mortali un tempo,
11. e del perduto impero
12. par che col grave e taciturno aspetto
13. faccian fede e ricordo al passeggero.
14. Or ti riveggo in questo suol, di tristi
15. lochi e dal mondo abbandonati amante
16. e d’afflitte fortune ognor compagna.
17. Questi campi cosparsi
18. di ceneri infeconde, e ricoperti
19. dell’impietrata lava,
20. che sotto i passi al peregrin risona;
21. dove s’annida e si contorce al sole
22. la serpe, e dove al noto
23. cavernoso covil torna il coniglio;
24. fûr liete ville e cólti,
25. e biondeggiâr di spiche, e risonâro
26. di muggito d’armenti;
27. fûr giardini e palagi,
28. agli ozi de’ potenti
29. gradito ospizio; e fûr cittá famose,
30. che coi torrenti suoi l’altèro monte
31. dall’ignea bocca fulminando oppresse
32. con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
33. una ruina involve,
34. ove tu siedi, o fior gentile, e quasi
35. i danni altrui commiserando, al cielo
36. di dolcissimo odor mandi un profumo,
37. che il deserto consola. A queste piagge
38. venga colui che d’esaltar con lode
39. il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
40. è il gener nostro in cura
41. all’amante natura. E la possanza
42. qui con giusta misura
43. anco estimar potrá dell’uman seme,
44. cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
45. con lieve moto in un momento annulla
46. in parte, e può con moti
47. poco men lievi ancor subitamente
48. annichilare in tutto.
49. Dipinte in queste rive
50. son dell’umana gente
51. «Le magnifiche sorti e progressive».1
52. Qui mira e qui ti specchia,
53. secol superbo e sciocco,
54. che il calle insino allora
55. dal risorto pensier segnato innanti
56. abbandonasti, e vòlti addietro i passi,
57. del ritornar ti vanti,
58. e procedere il chiami.
59. Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
60. di cui lor sorte rea padre ti fece,
61. vanno adulando, ancora
62. ch’a ludibrio talora
63. t’abbian fra sé. Non io
64. con tal vergogna scenderò sotterra;
65. ma il disprezzo piuttosto che si serra
66. di te nel petto mio,
67. mostrato avrò quanto si possa aperto;
68. bench’io sappia che obblio
69. preme chi troppo all’etá propria increbbe.
70. Di questo mal, che teco
71. mi fia comune, assai finor mi rido.
72. Libertá vai sognando, e servo a un tempo
73. vuoi di novo il pensiero,
74. sol per cui risorgemmo
75. della barbarie in parte, e per cui solo
76. si cresce in civiltá, che sola in meglio
77. guida i pubblici fati.
78. Cosí ti spiacque il vero
79. dell’aspra sorte e del depresso loco
80. che natura ci die’. Per queste il tergo
81. vigliaccamente rivolgesti al lume
82. che il fe’ palese; e, fuggitivo, appelli
83. vil chi lui segue, e solo
84. magnanimo colui
85. che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
86. fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
87. Uom di povero stato e membra inferme
88. che sia dell’alma generoso ed alto,
89. non chiama sé né stima
90. ricco d’òr né gagliardo,
91. e di splendida vita o di valente
92. persona infra la gente
93. non fa risibil mostra;
94. ma sé di forza e di tesor mendíco
95. lascia parer senza vergogna, e noma
96. parlando, apertamente, e di sue cose
97. fa stima al vero uguale.
98. Magnanimo animale
99. non credo io giá, ma stolto,
100. quel che nato a perir, nutrito in pene,
101. dice: — A goder son fatto, —
102. e di fetido orgoglio
103. empie le carte, eccelsi fati e nòve
104. felicitá, quali il ciel tutto ignora,
105. non pur quest’orbe, promettendo in terra
106. a popoli che un’onda
107. di mar commosso, un fiato
108. d’aura maligna, un sotterraneo crollo
109. distrugge sí, ch’avanza
110. a gran pena di lor la rimembranza.
111. Nobil natura è quella
112. ch’a sollevar s’ardisce
113. gli occhi mortali incontra
114. al comun fato, e che con franca lingua,
115. nulla al ver detraendo,
116. confessa il mal che ci fu dato in sorte,
117. e il basso stato e frale;
118. quella che grande e forte
119. mostra sé nel soffrir, né gli odii e l’ire
120. fraterne, ancor piú gravi
121. d’ogni altro danno, accresce
122. alle miserie sue, l’uomo incolpando
123. del suo dolor, ma dá la colpa a quella
124. che veramente è rea, che de’ mortali
125. madre è di parto e di voler matrigna.
126. Costei chiama inimica; e incontro a questa
127. congiunta esser pensando,
128. siccom’è il vero, ed ordinata in pria
129. l’umana compagnia,
130. tutti fra sé confederati estima
131. gli uomini, e tutti abbraccia
132. con vero amor, porgendo
133. valida e pronta ed aspettando aita
134. negli alterni perigli e nelle angosce
135. della guerra comune. Ed alle offese
136. dell’uomo armar la destra, e laccio porre
137. al vicino ed inciampo,
138. stolto crede cosí, qual fôra in campo
139. cinto d’oste contraria, in sul piú vivo
140. incalzar degli assalti,
141. gl’inimici obbliando, acerbe gare
142. imprender con gli amici,
143. e sparger fuga e fulminar col brando
144. infra i propri guerrieri.
145. Cosí fatti pensieri
146. quando fien, come fûr, palesi al volgo;
147. e quell’orror che primo
148. contra l’empia natura
149. strinse i mortali in social catena,
150. fia ricondotto in parte
151. da verace saper; l’onesto e il retto
152. conversar cittadino,
153. e giustizia e pietade altra radice
154. avranno allor che non superbe fole,
155. ove fondata probitá del volgo
156. cosí star suole in piede
157. quale star può quel c’ha in error la sede.
158. Sovente in queste rive,
159. che, desolate, a bruno
160. veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
161. seggo la notte; e su la mesta landa,
162. in purissimo azzurro
163. veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
164. cui di lontan fa specchio
165. il mare, e tutto di scintille in giro
166. per lo vòto seren brillare il mondo.
167. E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
168. ch’a lor sembrano un punto,
169. e sono immense, in guisa
170. che un punto a petto a lor son terra e mare
171. veracemente; a cui
172. l’uomo non pur, ma questo
173. globo, ove l’uomo è nulla,
174. sconosciuto è del tutto; e quando miro
175. quegli ancor piú senz’alcun fin remoti
176. nodi quasi di stelle,
177. ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
178. e non la terra sol, ma tutte in uno,
179. del numero infinite e della mole,
180. con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
181. o sono ignote, o cosí paion come
182. essi alla terra, un punto
183. di luce nebulosa; al pensier mio
184. che sembri allora, o prole
185. dell’uomo? E rimembrando
186. il tuo stato quaggiú, di cui fa segno
187. il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
188. che te signora e fine
189. credi tu data al Tutto; e quante volte
190. favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
191. granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
192. per tua cagion, dell’universe cose
193. scender gli autori, e conversar sovente
194. co’ tuoi piacevolmente; e che, i derisi
195. sogni rinnovellando, ai saggi insulta
196. fin la presente etá, che in conoscenza
197. ed in civil costume
198. sembra tutte avanzar; qual moto allora,
199. mortal prole infelice, o qual pensiero
200. verso te finalmente il cor m’assale?
201. Non so se il riso o la pietá prevale.
202. Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
203. cui lá nel tardo autunno
204. maturitá senz’altra forza atterra,
205. d’un popol di formiche i dolci alberghi
206. cavati in molle gleba
207. con gran lavoro, e l’opre,
208. e le ricchezze ch’adunate a prova
209. con lungo affaticar l’assidua gente
210. avea provvidamente al tempo estivo,
211. schiaccia, diserta e copre
212. in un punto; cosí d’alto piombando,
213. dall’utero tonante
214. scagliata al ciel profondo,
215. di ceneri e di pomici e di sassi
216. notte e ruina, infusa
217. di bollenti ruscelli,
218. o pel montano fianco
219. furiosa tra l’erba
220. di liquefatti massi
221. e di metalli e d’infocata arena
222. scendendo immensa piena,
223. le cittadi che il mar lá su l’estremo
224. lido aspergea, confuse
225. e infranse e ricoperse
226. in pochi istanti: onde su quelle or pasce
227. la capra, e cittá nove
228. sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
229. son le sepolte, e le prostrate mura
230. l’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
231. Non ha natura al seme
232. dell’uom piú stima o cura
233. ch’alla formica: e se piú rara in quello
234. che nell’altra è la strage,
235. non avvien ciò d’altronde
236. fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
237. Ben mille ed ottocento
238. anni varcâr poi che sparîro, oppressi
239. dall’ignea forza, i popolati seggi,
240. e il villanello intento
241. ai vigneti, che a stento in questi campi
242. nutre la morta zolla e incenerita,
243. ancor leva lo sguardo
344. sospettoso alla vetta
245. fatal, che nulla mai fatta piú mite
246. ancor siede tremenda, ancor minaccia
247. a lui strage ed ai figli ed agli averi
248. lor poverelli. E spesso
249. il meschino in sul tetto
250. dell’ostel villereccio, alla vagante
251. aura giacendo tutta notte insonne,
252. e balzando piú volte, esplora il corso
253. del temuto bollor, che si riversa
254. dall’inesausto grembo
255. sull’arenoso dorso, a cui riluce
256. di Capri la marina
257. e di Napoli il porto e Mergellina.
258. E se appressar lo vede, o se nel cupo
259. del domestico pozzo ode mai l’acqua
260. fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
261. desta la moglie in fretta, e via, con quanto
262. di lor cose rapir posson, fuggendo,
263. vede lontan l’usato
264. suo nido, e il picciol campo,
265. che gli fu dalla fame unico schermo,
266. preda al flutto rovente,
267. che crepitando giunge, e inesorato
268. durabilmente sovra quei si spiega.
269. Torna al celeste raggio
270. dopo l’antica obblivion, l’estinta
271. Pompei, come sepolto
272. scheletro, cui di terra
273. avarizia o pietá rende all’aperto;
274. e dal deserto fòro
275. diritto infra le file
276. de’ mozzi colonnati il peregrino
277. lunge contempla il bipartito giogo
278. e la cresta fumante,
279. ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
280. E nell’orror della secreta notte
281. per li vacui teatri,
282. per li templi deformi e per le rotte
283. case, ove i parti il pipistrello asconde,
284. come sinistra face
285. che per vòti palagi atra s’aggiri,
286. corre il baglior della funerea lava,
287. che di lontan per l’ombre
288. rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
289. Cosí, dell’uomo ignara e dell’etadi
290. ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
291. dopo gli avi i nepoti,
292. sta natura ognor verde, anzi procede
293. per sí lungo cammino
294. che sembra star. Caggiono i regni intanto,
295. passan genti e linguaggi: ella nol vede:
296. e l’uom d’eternitá s’arroga il vanto.
297. E tu, lenta ginestra,
298. che di selve odorate
299. queste campagne dispogliate adorni,
300. anche tu presto alla crudel possanza
301. soccomberai del sotterraneo foco,
302. che ritornando al loco
303. giá noto, stenderá l’avaro lembo
304. su tue molli foreste. E piegherai
305. sotto il fascio mortal non renitente
306. il tuo capo innocente:
307. ma non piegato insino allora indarno
308. codardamente supplicando innanzi
309. al futuro oppressor; ma non eretto
310. con forsennato orgoglio inver’ le stelle,
311. né sul deserto, dove
312. e la sede e i natali
313. non per voler ma per fortuna avesti;
314. ma piú saggia, ma tanto
315. meno inferma dell’uom, quanto le frali
316. tue stirpi non credesti
317. o dal fato o da te fatte immortali.
Parafrasi affiancata
E gli uomini vollero / piuttosto che le tenebre la luce (Giovanni, III, 19)
1. Qui sul crinale (schiena) desolato
2. Del monte spaventoso (formidabile)
3. E distruttore Vesuvio,
4. Il quale non è ornato dai colori di nessun altro arbusto o fiore,
5. Spargi intorno i tuoi cespi solitari,
6. Profumata ginestra,
7. Felice nelle terre desolate. Un’altra volta (“anco”) ti vidi
8. Che abbellivi con i tuoi steli anche i terreni solitari
9. Che circondano Roma (la cittade),
10. La città regina (donna) degli esseri umani una volta,
11. E dell’Impero ormai da tempo caduto
12. E sembra (par che) che queste campagne con il loro silenzioso e cupo aspetto
13. Testimonino e ricordino a chi vi passa (passeggero) il passato di quei luoghi.
14. Ti rivedo adesso su questo terreno, tu che ami
15. i luoghi malinconici e isolati dal resto del mondo,
16. e accompagni sempre ciò che dalla grandezza è caduto in disgrazia (“afflitte fortune”)
17. Questi campi sui cui sono distese
18. Ceneri che li rendono sterili, e coperti
19. Dalla lava dissecata e ormai divenuta roccia
20. Che rintocca sotto i passi di chi la calpesta (“peregrin”);
21. Dove si nasconde nella sua tana o si distende arrotolandosi al sole
22. Il serpente, e dove alla familiare
23. E profonda tana (“covil”) torna il coniglio;
24. Furono coltivati questi campi e popolati di ricche città, (“liete ville”)
25. E biondeggiarono di grano e messi, e risuonò l’aria
26. Dei muggiti delle mandrie,
27. Vi furono giardini e regge sontuose,
28. Per lo svago dei potenti
29. Luogo prediletto; e vi furono città celebri
30. Che con i suoi fiumi di lava il vulcano prepotente (“altero”)
31. tuonando (“fulminando”) dalla sua bocca infuocata seppellì
32. Insieme a tutti i loro abitanti. Ora tutto qui intorno
33. È avvolto in uno sfacelo,
34. Dove tu cresci, o fiore delicato, e come se
35. Stessi piangendo le disgrazie altrui, nell’aria
36. Spargi un odore finissimo e profumato,
37. Che raddolcisce il dolore del deserto. In questi luoghi
38. Venga chi ha l’abitudine (“ha in uso”, v.39) di entusiasmarsi
39. Della nostra condizione di esseri umani, e guardi con i propri occhi quanto
40. È cara (“in cura”) la nostra specie (“il gener nostro”)
41. Alla benevola natura. E la potenza dell’uomo (“uman seme”, v.43)
42. In questo posto con giusto metro di misura
43. Potrà valutare con esattezza,
44. A cui la natura, come una severa balia (“dura nutrice”), nel momento in cui egli ha meno paura di essere sorpreso, 45. Con un minimo moto nell’attimo appena di un secondo
46. È capace di radere al suolo (“annichilare”, v.48) gran parte di ciò che egli crea e con moti
47. Ancora più leggeri in un baleno
48. Distruggere tutto ciò che ne rimane.
49. Qui su queste pendici (“rive”) come in un quadro
50. è del genere umano
51. Ritratto il destino di splendore e progresso.
52. Vieni qui a guardarti in viso e specchiarti,
53. Secolo vano e superbo,
54. Che la via (“il calle”) sino ad ora percorsa
55. Dal pensiero ritrovato del Rinascimento
56. Hai abbandonato, e sei tornato indietro,
57. E vantandoti del tuo cammino a ritroso,
58. Lo chiami avanzamento e progresso.
59. Il tuo infantilismo (“pargoleggiar”) tutti gli intellettuali,
60. Ai quali sei padre viste le loro posizioni erronee (“sorte rea”)
61. Adulano e lodano continuamente, anche se
62. A volte ti prendono in giro (“a ludibrio”)
63. E ti scherniscono segretamente (“tra sé”). Non io,
64. Io non morirò (“scenderò sotterra”) comportandomi in un modo tanto infamante;
65. Piuttosto il disprezzo profondo racchiuso
66. Nel mio cuore per te,
67. dimostrerò più apertamente che si possa:
68. nonostante io sappia bene che l’oblio
69. È la pena per chi fu troppo sgradito all’età in cui visse.
70. Di questa pena, che con te
71. Condivido, per il momento non mi preoccupo affatto e anzi mi pare ridicola.
72. Sogni di essere libero, e vuoi nello stesso momento che sia servo
73. Di nuovo il pensiero,
74. La sola cosa a cui si deve la nostra resurrezione
75. Parziale dalla barbarie passata, e la sola in virtù della quale
76. Cresce la cultura e la civiltà, unico oggetto che verso il meglio
77. indirizza il destino dei popoli (“pubblici fati”).
78. Così hai disprezzato la realtà
79. Del destino amaro e del luogo piccolo e meschino
80. Che la natura ci ha concesso. Per questo le spalle (“il tergo”)
81. Hai volto da vigliacco alla luce della ragione (“il lume”)
82. Che ci ha svelato il vero: e, fuggendo, chiami
83. Con il nome di vile chi la segue, e semplicemente
84. Magnanimo chi
85. Prendendosi gioco di se stesso o degli altri, furbo o forse pazzo,
86. Innalza (“estolle”) sino alle stelle l’urlo disperato degli uomini.
87. Un uomo umile e malato (“povero stato e membra inferme”)
88. Che sia tuttavia nell’animo generoso e nobile,
89. Non si ritiene né si definisce da solo
90. Ricco di tesori né forte,
91. E di vita sfarzosa o vigorosa
92. Costituzione del corpo tra le persone
93. Non si vanta in maniera ridicola;
94. Ma essendo come un mendicante che deve chiedere ad altri sostegno e denaro
95. Lascia che il suo stato si noti senza vergognarsi, e chiama,
96. Quando ne parla, apertamente le cose
97. Con il loro vero nome e le valuta con esattezza (“chiama e fa stima al vero uguale”)
98. Un uomo dotato di sagacia (“magnanimo”)
99. Io non considero infatti (“già”), ma piuttosto uno sciocco,
100. Chi, essendo nato per morire e nutrito unicamente di sofferenza,
101. Dice, sono fatto per godere,
102. E di orgoglio nauseante
103. Riempie libri, un futuro splendido e felicità
104. tutte nuove, che nemmeno l’universo intero conosce,
105. E tanto meno questo pianeta, promette sulla terra
106. A una massa di popoli che un’onda
107. di mare in tempesta o un semplice respiro
108. Di aria infetta da una pestilenza (“aura maligna”) o un terremoto (“sotterraneo crollo”)
109. Sono capaci di annientare a tal punto, che sopravviverebbe (“avanza”)
110. A stento di loro il ricordo.
111. Una nobile natura è invece quella
112. Di chi osa sollevare
113. Gli occhi come semplice uomo contro
114. Il destino comune a tutti, e con lingua sincera e schietta,
115. Non togliendo nulla a ciò che è vero,
116. Confessa e parla apertamente del dolore che ci è stato assegnato per destino
117. E lo stato infimo e debole in cui viviamo;
118. È una natura nobile quella che tenace e solida
119. Si mostra nella sofferenza, né odio e rabbia
120. Verso i propri fratelli esseri umani, sentimenti più gravi
121. Di ogni altra disgrazia, aggiunge
122. alle sventure che già prova di per sé, non incolpando perciò
123. l’uomo come causa dei propri mali, ma accusando colei
124. che davvero è colpevole, la Natura, che degli esseri umani
125. è madre perché li ha generati ma matrigna per come si comporta con loro (“madre di parto e di voler matrigna”).
126. È lei che devi chiamare nemica; e contro di lei
127. Pensando se stessa come unita
128. E schierata all’unisono (“ordinata in pria”), com’è giusto e vero,
129. La società umana
130. Considera tutti tra loro alleati
131. Gli uomini e tutti li abbraccia insieme
132. Con sincero amore, porgendo
133. O aspettando sempre un aiuto veloce ed efficace
134. Tra le tantissime minacce e paure
135. Della guerra che tutti combattono insieme. E con le ingiurie verso i propri simili
136. Armare la mano degli uomini, o porre ostacoli (“laccio”)
137. O intralciare chi ci sta vicino,
138. Reputa stupido, così come lo sarebbe (“fora”) chi in un campo di battaglia,
139. Circondato dai nemici, nel pieno
140. Delle ondate incalzanti della parte avversa,
141. Dimenticando i nemici, cominciasse ad aprire dispute aspre
142. Con i propri compagni di battaglia,
143. Metterli in fuga e colpirli a morte (“fulminar”) brandendo la propria spada
144. Tra i soldati della propria schiera.
145. Un ragionamento di questo tipo,
146. Quando sarà, come lo è stato in fondo già in passato, noto a chiunque
147. E quel sacro terrore che all’alba dei tempi (“orror primo”)
148. Contro la Natura malvagia
149. Strinse tutti gli uomini come gli anelli di una catena,
150. Sarà riportato tra noi almeno in parte
151. Dalla conoscenza del Vero (“verace saper”), l’onestà e la rettitudine
152. Nei rapporti tra gli uomini (“conversar cittadino”),
153. La giustizia e la pietà, un altro fondamento più profondo (“radice”)
154. Avranno delle farneticazioni illusorie e ottuse (“superbe fole”),
155. Sulle quali il coraggio dei popoli (“probità del volgo”)
156. Potrebbe stare in piedi così come ci starebbe
157. Chi poggia i piedi su un terreno che vibrando crolla a pezzi.
158. Spesso su queste terre,
159. Che, deserte, di scuro
160. Sono vestite dalle onde di lava pietrificata, e sembra che la loro superficie sia liquida,
161. Vengo a sedermi durante la notte, e sopra la triste distesa,
162. nel cielo sgombro e illuminato d’azzurro incontaminato,
163. Vedo le stelle in alto brillare come fiamme,
164. Sotto le quali si distende più in là come uno specchio
165. Il mare, e vedo pieno di scintille sparse intorno
166. Per la volta celeste sgombra (“lo voto seren”) il mondo brillare.
167. E poi fissò gli occhi sulle luci delle stelle,
168. A loro (gli occhi, ndr) queste sembrano non essere che un piccolo punto,
169. E invece sono immense, viceversa
170. Sono un punto per loro (le stelle) la terra e il mare
171. Ed è questa la prospettiva veritiera (“veracemente”); e perciò (“a cui”)
172. Non solo l’uomo, ma anche questo
173. Pianeta dove l’uomo vive è insignificante,
174. È assolutamente privo di importanza (“sconosciuto”); e quando osservo
175. Quegli ammassi (“nodi”, v.176) ancor più sterminati e irraggiungibili,
176. Di stelle, le galassie,
177. Che per noi assomigliano alla nebbia, alle quali non solo l’uomo,
178. Non solo la terra, ma tutte insieme
179. Nel loro numero infinito e nella loro massa,
180. Con il sole dorato insieme, le stelle
181. O sono anche esse sconosciute, o appaiono
182. come essi appaiono alla terra, un piccolo puntino
183. Di luce sfocata; alla luce di queste riflessioni, nel mio pensiero
184. Quale immagine può mai comparire di te (“che sembri allora”), o stirpe
185. Degli esseri umani? E ricordando
186. La condizione in cui vivi quaggiù, della quale è simbolo
187. Il terreno vulcanico che sto calpestando in questo momento; e pensando invece dal tuo punto di vista (“dall’altra parte”)
188. Che tu ti pensi signora, stirpe degli umani, e che un fine logico
189. Credi sia posto in capo all’Universo, e pensando a quante volte
190. Ti sei divertita a raccontar favole su come, su questo minuscolo e oscuro
191. Granello di sabbia, che è detto pianeta terra,
192. A causa della tua presenza, siano scesi gli dèi creatori (“scender gli autori”, v.193) dell’universo
193. E di come spesso conversarono
194. Piacevolmente con i tuoi simili, e i già ridicolizzati sogni
195. Rinnovando e continuando a raccontare, e si burla dei saggi,
196. Il secolo presente, il quale per conoscenze
197. E civiltà di usi e costumi
198. Sembra dover superare tutti i precedenti, quale sentimento (“moto”) allora,
199. Infelice stirpe degli esseri umani, o quale opinione
200. Sul tuo conto può infine riempirmi il cuore?
201. Io davvero non so se sia più forte in me il senso del ridicolo o la compassione nei tuoi confronti.
202. Come quando da un albero una piccola mela,
203. Sul finire dell’autunno,
204. Per forza di maturazione e null’altro cade,
205. E la piccola tana di una colonia di formiche,
206. Scavata nella terra tenera
207. Attraverso un paziente lavoro, e le costruzioni
208. E le ricchezze lì radunate per sicurezza,
209. Con tanta fatica dai laboriosi membri del branco,
210. Che erano state raccolte prudentemente durante l’estate,
211. Schiaccia, stermina e copre
212. In un attimo; alla stessa maniera precipitando dall’alto,
213. Dal cratere (“utero”) tonante
214. Sparata nel cielo infinito,
215. Fatta di ceneri, sassi e rocce,
216. Una nube oscura di sfacelo e rovina, sotto la quale scorrevano
217. Torrenti di lava bollente,
218. per il pendio della montagna,
219. Come una furia tra l’erba,
220. Fatti di massi disciolti
221. E metalli e di sabbia incendiata,
222. Scendendo, un’immensa piena di lava,
223. Le città che il mare laggiù sulla spiaggia più lontana
224. Bagnava, disciolse
225. E distrusse e ricoprì
226. In pochi istanti: e su quelle ora pascolano
227. Le capre, e nuove città
228. Sono nate all’esterno della colata (“dall’altra banda”), alle quali quasi da sgabello e sostegno
229. Fanno quelle sepolte, e le antiche mura crollate
230. Sono ai piedi del monte impietoso che quasi le calpesta.
231. Per la natura il popolo
232. Umano non è più caro o importante
233. Di quanto non lo siano le formiche: e se capita più spesso
234. Lo sterminio di questa specie rispetto alla nostra,
235. Ciò d’altronde accade
236. Solo perché l’uomo ha meno capacità di riprodursi (“prosapie”=generazioni).
237. Ben mille e ottocento
238. Anni sono passati da quando scomparirono, schiacciati
239. Dalla forza del fuoco vulcanico, gli edifici che furono abitati,
240. E il povero contadino, quando cura
241. Le vigne, che a fatica su questi terreni
242. Sono nutriti dalla terra bruciata e sterile,
243. Ancora talvolta alza gli occhi
244. Guardingo verso la cima del monte
245. Assassino, che da nulla fu mai scalfita né resa più tenera
246. Ed ancora sta lì spaventosa, ancora minaccia
247. Di annientare lui e i suoi figli e le poche ricchezze
248. Che essi, poveri, hanno. E spesso
249. Il disgraziato sale sul tetto
250. Della casa contadina, stando all’aria aperta
251. Sdraiato senza dormire per tutta la notte,
252. E sobbalzando per la tensione più e più volte, segue il corso
253. Del temuto ribollire, che scende
254. Dal mai sazio cratere
255. Sul crinale roccioso, sul quale si riflette
256. Il profilo di Capri
257. E il porto di Napoli e il quartiere Mergellina.
258. E se capisce che la lava si avvicina, oppure se nel fondo scuro
259. Del pozzo di casa capita che egli senta l’acqua
260. Borbottare ribollendo per il calore sotterraneo, sveglia i figli,
261. Sveglia la moglie in fretta e furia, e via, con quanto
262. Essi possono in quel momento prendere di ciò che possiedono, fuggendo di corsa,
263. Egli vede allontanandosi la familiare
264. Sua dimora, e il piccolo campo,
265. Tutto ciò che gli permetteva di scampare alla fame,
266. Invaso dall’ondata lavica,
267. Che arriva scoppiettando mentre brucia tutto ciò che incontra, e inarrestabile
268. Si assesta sopra quei luoghi per sempre.
269. Torna a vedere la luce del sole
270. Dopo un oblio lunghissimo la distrutta
271. Pompei, come un seppellito
272. Scheletro, al quale la terra
273. Stufa di tenerlo racchiuso in sé o pietosa permette di uscire allo scoperto;
274. E dal foro, la piazza, desolata
275. Guardando dritto tra le file parallele
276. Dei portici le cui colonne sono state mozzate a metà dalla lava, chi visita il sito (“il peregrino”)
277. Può osservare da lontano il profilo a forma di conca della montagna (il “bipartito giogo”)
278. E il cratere fumante,
279. Che ancora minacciano le rovine sparsi qui e là.
280. E nella paura della notte buia (“secreta”)
281. Tra i teatri vuoti,
282. Tra gli antichi templi distrutti e tra le macerie
283. Delle case, dove si riproducono nell’oscurità i pipistrelli,
284. Come un fantasma maligno (“sinistra face”)
285. Che si aggira oscuro per antichi palazzi abbandonati,
286. Corre la luce della lava mortale
287. Che in lontananza tra le ombre
288. Si intravede nel suo rossore e colora i luoghi che circondano i resti della città.
289. È così, inconsapevole dell’uomo e delle sue età,
290. Che solo lui chiama antiche, del susseguirsi
291. Di antenati e pronipoti,
292. Che sta la natura, eternamente giovane (“ognor verde”), e anzi percorre
293. Un cammino tanto lungo e lento
294. Che essa sembra star ferma e immobile. Cadono nel frattempo i regni,
295. Nascono e muoiono gli uomini e cambiano le loro lingue: lei semplicemente non se ne avvede:
296. E l’uomo si attribuisce vantandosi con superbia un’aura di eternità.
297. E tu, tenera ginestra,
298. Che di boschi profumati
299. Decori queste campagne spoglie,
300. Anche tu presto alla crudele e impietosa potenza
301. Della lava sotterranea dovrai soccombere,
302. La quale passando di nuovo
303. Sui luoghi già da lei bruciati, stenderà il suo funebre lenzuolo (“lembo”)
304. Sui tuoi morbidi cespugli. E sarai costretta a piegare
305. Sotto la colata assassina, senza poter resistere (“non renitente”)
306. La tua testa innocente:
307. Ma mai fino ad allora essa è stata piegata
308. Per supplicare in maniera vigliacca di fronte
309. A chi l’avrebbe schiacciata; ma mai essa è stata sollevata
310. Con folle superbia verso il cielo e gli astri,
311. E neppure verso il deserto, dove
312. Hai vissuto e sei nata
313. Non per tua volontà ma per caso;
314. Ma sei più saggia, ma sei tanto
315. meno debole e insana dell’uomo, poiché le tue fragili
316. generazioni non hai mai creduto
317. poter essere immortali per volere del destino o addirittura di te stessa.
Parafrasi discorsiva
[vv. 1-51] Qui sul crinale (schiena, v.1) desolato del monte spaventoso (formidabile, v.2) e distruttore Vesuvio, il quale non è ornato dai colori di nessun altro arbusto o fiore, spargi intorno i tuoi cespi solitari, profumata ginestra, felice nelle terre desolate. Un’altra volta (“anco”, v.7) ti vidi che abbellivi con i tuoi steli anche i terreni solitari che circondano Roma (“la cittade”, v.9), la città regina (“donna”, v.10) degli esseri umani una volta, e dell’Impero ormai da tempo caduto. E sembra (par che) che queste campagne con il loro silenzioso e cupo aspetto testimonino e ricordino a chi vi passa (passeggero) il passato di quei luoghi. Ti rivedo adesso su questo terreno, tu che ami i luoghi malinconici e isolati dal resto del mondo, e accompagni sempre ciò che dalla grandezza è caduto in disgrazia (“afflitte fortune”, v.16). Questi campi sui cui sono distese ceneri che li rendono sterili, e coperti dalla lava dissecata e ormai divenuta roccia che rintocca sotto i passi di chi la calpesta (“peregrin”, v.20); dove si nasconde nella sua tana o si distende arrotolandosi al sole il serpente, e dove alla familiare e profonda tana (“covil”, v.23) torna il coniglio; furono coltivati questi campi e popolati di ricche città, (“liete ville”, v.24) e biondeggiarono di grano e messi, e risuonò l’aria dei muggiti delle mandrie, vi furono giardini e regge sontuose, per lo svago dei potenti luogo prediletto; e vi furono città celebri che con i suoi fiumi di lava il vulcano prepotente (“altero”, v.30) tuonando (“fulminando”, v.31) dalla sua bocca infuocata seppellì insieme a tutti i loro abitanti. Ora tutto qui intorno è avvolto in uno sfacelo, dove tu cresci, o fiore delicato, e come se stessi piangendo le disgrazie altrui, nell’aria spargi un odore finissimo e profumato, che raddolcisce il dolore del deserto. In questi luoghi venga chi ha l’abitudine (“ha in uso”, v.39) di entusiasmarsi della nostra condizione di esseri umani, e guardi con i propri occhi quanto è cara (“in cura”, v.40) la nostra specie (“il gener nostro”, v.40) alla benevola natura. E la potenza dell’uomo (“uman seme”, v.43) in questo posto con giusto metro di misura potrà valutare con esattezza, a cui la natura, come una severa balia (“dura nutrice”, v.44), nel momento in cui egli ha meno paura di essere sorpreso, con un minimo moto nell’attimo appena di un secondo è capace di radere al suolo (“annichilare”, v.48) gran parte di ciò che egli crea e con moti ancora più leggeri in un baleno distruggere tutto ciò che ne rimane. Qui su queste pendici (“rive”, v.49) come in un quadro è del genere umano ritratto il destino di splendore e progresso.
[vv. 52-86] Vieni qui a guardarti in viso e specchiarti, secolo vano e superbo, che la via (“il calle”, v.54) sino ad ora percorsa dal pensiero ritrovato del Rinascimento hai abbandonato, e sei tornato indietro, e vantandoti del tuo cammino a ritroso, lo chiami avanzamento e progresso. Il tuo infantilismo (“pargoleggiar”, v.59) tutti gli intellettuali, ai quali sei padre viste le loro posizioni erronee (“sorte rea”, v.60), adulano e lodano continuamente, anche se a volte ti prendono in giro (“a ludibrio”, v.62) e ti scherniscono segretamente (“tra sé”, v.63). Non io, io non morirò (“scenderò sotterra”, v.64) comportandomi in un modo tanto infamante; piuttosto il disprezzo profondo racchiuso nel mio cuore per te dimostrerò più apertamente che si possa: nonostante io sappia bene che l’oblio è la pena per chi fu troppo sgradito all’età in cui visse. Di questa pena, che con te condivido, per il momento non mi preoccupo affatto e anzi mi pare ridicola. Sogni di essere libero, e vuoi nello stesso momento che sia servo di nuovo il pensiero, la sola cosa a cui si deve la nostra resurrezione parziale dalla barbarie passata, e la sola in virtù della quale cresce la cultura e la civiltà, unico oggetto che verso il meglio indirizza il destino dei popoli (“pubblici fati”, v.77). Così hai disprezzato la realtà del destino amaro e del luogo piccolo e meschino che la natura ci ha concesso. Per questo le spalle (“il tergo”, v.80) hai volto da vigliacco alla luce della ragione (“il lume”, v.81) che ci ha svelato il vero: e, fuggendo, chiami con il nome di vile chi la segue, e semplicemente magnanimo chi prendendosi gioco di se stesso o degli altri, furbo o forse pazzo, innalza (“estolle”, v.86) sino alle stelle l’urlo disperato degli uomini.
[vv. 87-157] Un uomo umile e malato (“povero stato e membra inferme”, v.87) che sia tuttavia nell’animo generoso e nobile, non si ritiene né si definisce da solo ricco di tesori né forte, e di vita sfarzosa o vigorosa costituzione del corpo, tra le persone non si vanta in maniera ridicola; ma essendo come un mendicante che deve chiedere ad altri sostegno e denaro lascia che il suo stato si noti senza vergognarsi, e chiama, quando ne parla, apertamente le cose con il loro vero nome e le valuta con esattezza (“chiama e fa stima al vero uguale”, v.97). Un uomo dotato di sagacia (“magnanimo”, v.98) io non considero infatti (“già”, v.99), ma piuttosto uno sciocco, chi, essendo nato per morire e nutrito unicamente di sofferenza, dice, sono fatto per godere, e di orgoglio nauseante riempie libri; un futuro splendido e felicità tutte nuove, che nemmeno l’universo intero conosce, e tanto meno questo pianeta, promette sulla terra a una massa di popoli che un’onda di mare in tempesta o un semplice respiro di aria infetta da una pestilenza (“aura maligna”, v.108) o un terremoto (“sotterraneo crollo”, v.108) sono capaci di annientare a tal punto, che sopravviverebbe (“avanza”, v.109) a stento di loro il ricordo. Una nobile natura è invece quella di chi osa sollevare gli occhi come semplice uomo contro il destino comune a tutti, e con lingua sincera e schietta, non togliendo nulla a ciò che è vero, confessa e parla apertamente del dolore che ci è stato assegnato per destino e lo stato infimo e debole in cui viviamo; è una natura nobile quella che tenace e solida si mostra nella sofferenza, né odio e rabbia verso i propri fratelli esseri umani, sentimenti più gravi di ogni altra disgrazia, aggiunge alle sventure che già prova di per sé, non incolpando perciò l’uomo come causa dei propri mali, ma accusando colei che davvero è colpevole, la Natura, che degli esseri umani è madre perché li ha generati ma matrigna per come si comporta con loro (“madre di parto e di voler matrigna”, v.125). È lei che devi chiamare nemica; e contro di lei pensando se stessa come unita e schierata all’unisono (“ordinata in pria”, v.128), com’è giusto e vero, la società umana considera tutti tra loro alleati gli uomini e tutti li abbraccia insieme con sincero amore, porgendo o aspettando sempre un aiuto veloce ed efficace tra le tantissime minacce e paure della guerra che tutti combattono insieme. E con le ingiurie verso i propri simili armare la mano degli uomini, o porre ostacoli (“laccio”, v.136) o intralciare chi ci sta vicino reputa stupido, così come lo sarebbe (“fora”, v.138) chi in un campo di battaglia, circondato dai nemici, nel pieno delle ondate incalzanti della parte avversa, dimenticandosene, cominciasse ad aprire dispute aspre con i propri compagni di battaglia, metterli in fuga e colpirli a morte (“fulminar”, v.143) brandendo la propria spada tra i soldati della propria schiera. Un ragionamento di questo tipo, quando sarà, come lo è stato in fondo già in passato, noto a chiunque, e quel sacro terrore che all’alba dei tempi (“orror primo”, v.147) contro la Natura malvagia strinse tutti gli uomini come gli anelli di una catena sarà riportato tra noi almeno in parte dalla conoscenza del Vero (“verace saper”, v.151), l’onestà e la rettitudine nei rapporti tra gli uomini (“conversar cittadino”, v.152), la giustizia e la pietà, un altro fondamento più profondo (“radice”, v.153) avranno delle farneticazioni illusorie e ottuse (“superbe fole”, v.154), sulle quali il coraggio dei popoli (“probità del volgo”, v.155) potrebbe stare in piedi così come ci starebbe chi poggia i piedi su un terreno che vibrando crolla a pezzi.
[vv. 158-200] Spesso su queste terre, che, deserte, di scuro sono vestite dalle onde di lava pietrificata, e sembra che la loro superficie sia liquida, vengo a sedermi durante la notte, e sopra la triste distesa, nel cielo sgombro e illuminato d’azzurro incontaminato, vedo le stelle in alto brillare come fiamme, sotto le quali si distende più in là come uno specchio il mare, e vedo pieno di scintille sparse intorno per la volta celeste sgombra (“lo voto seren”, v.166) il mondo brillare. E poi fissò gli occhi sulle luci delle stelle, a loro (gli occhi, ndr) queste sembrano non essere che un piccolo punto, e invece sono immense, viceversa sono un punto per loro (le stelle, ndr) la terra e il mare ed è questa la prospettiva veritiera (“veracemente”, v.171); e perciò (“a cui”, v.171) non solo l’uomo, ma anche questo pianeta dove l’uomo vive è insignificante, è assolutamente privo di importanza (“sconosciuto”, v.174); e quando osservo quegli ammassi (“nodi”, v.176) ancor più sterminati e irraggiungibili di stelle, le galassie, che per noi assomigliano alla nebbia, alle quali non solo l’uomo, non solo la terra, ma tutte insieme nel loro numero infinito e nella loro massa, con il sole dorato insieme, le stelle, o sono anche esse sconosciute, o appaiono come essi appaiono alla terra, un piccolo puntino di luce sfocata; alla luce di queste riflessioni, nel mio pensiero quale immagine può mai comparire di te (“che sembri allora”, v.184), o stirpe degli esseri umani? E ricordando la condizione in cui vivi quaggiù, della quale è simbolo il terreno vulcanico che sto calpestando in questo momento; e pensando invece dal tuo punto di vista (“dall’altra parte”, v.187) che tu ti pensi signora, stirpe degli umani, e che un fine logico credi sia posto in capo all’Universo, e pensando a quante volte ti sei divertita a raccontar favole su come, su questo minuscolo e oscuro granello di sabbia, che è detto pianeta terra, a causa della tua presenza, siano scesi gli dèi creatori (“scender gli autori”, v.193) dell’universo e di come spesso conversarono piacevolmente con i tuoi simili, e i già ridicolizzati sogni rinnovando e continuando a raccontare, si burla dei saggi il secolo presente, il quale per conoscenze e civiltà di usi e costumi sembra dover superare tutti i precedenti, quale sentimento (“moto”, v.198) allora, infelice stirpe degli esseri umani, o quale opinione sul tuo conto può infine riempirmi il cuore?
[vv. 201-236] Io davvero non so se sia più forte in me nei tuoi confronti il senso del ridicolo o la compassione. Come quando da un albero una piccola mela, sul finire dell’autunno, per forza di maturazione e null’altro cade, e la piccola tana di una colonia di formiche, scavata nella terra tenera attraverso un paziente lavoro, e le costruzioni e le ricchezze lì radunate per sicurezza con tanta fatica dai laboriosi membri del branco, che erano state raccolte prudentemente durante l’estate, schiaccia, stermina e copre in un attimo; alla stessa maniera precipitando dall’alto, dal cratere (“utero”, v.213) tonante sparata nel cielo infinito, fatta di ceneri, sassi e rocce, una nube oscura di sfacelo e rovina, sotto la quale scorrevano torrenti di lava bollente, per il pendio della montagna, come una furia tra l’erba, fatti di massi disciolti e metalli e di sabbia incendiata, scendendo, un’immensa piena di lava, le città che il mare laggiù sulla spiaggia più lontana bagnava, disciolse e distrusse e ricoprì in pochi istanti: e su quelle ora pascolano le capre, e nuove città sono nate all’esterno della colata (“dall’altra banda”, v.228), alle quali quasi da sgabello e sostegno fanno quelle sepolte, e le antiche mura crollate sono ai piedi del monte impietoso che quasi le calpesta. Per la natura il popolo umano non è più caro o importante di quanto non lo siano le formiche: e se capita più spesso lo sterminio di questa specie rispetto alla nostra, ciò d’altronde accade solo perché l’uomo ha meno capacità di riprodursi (“prosapie”=generazioni, v.236).
[vv. 237-296] Ben mille e ottocento anni sono passati da quando scomparirono, schiacciati dalla forza del fuoco vulcanico, gli edifici che furono abitati, e il povero contadino, quando cura le vigne, che a fatica su questi terreni sono nutriti dalla terra bruciata e sterile, ancora talvolta alza gli occhi guardingo verso la cima del monte assassino, che da nulla fu mai scalfita né resa più tenera ed ancora sta lì spaventosa, ancora minaccia di annientare lui e i suoi figli e le poche ricchezze che essi, poveri, hanno. E spesso Il disgraziato sale sul tetto della casa contadina, stando all’aria aperta sdraiato senza dormire per tutta la notte, e sobbalzando per la tensione più e più volte, segue il corso del temuto ribollire, che scende dal mai sazio cratere sul crinale roccioso, sul quale si riflette il profilo di Capri e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina. E se capisce che la lava si avvicina, oppure se nel fondo scuro del pozzo di casa capita che egli senta l’acqua borbottare ribollendo per il calore sotterraneo, sveglia i figli, sveglia la moglie in fretta e furia, e via, con quanto essi possono in quel momento prendere di ciò che possiedono, fuggendo di corsa, egli vede allontanandosi la familiare sua dimora, e il piccolo campo, tutto ciò che gli permetteva di scampare alla fame, invaso dall’ondata lavica, che arriva scoppiettando mentre brucia tutto ciò che incontra, e inarrestabile si assesta sopra quei luoghi per sempre. Torna a vedere la luce del sole dopo un oblio lunghissimo la distrutta Pompei, come un seppellito scheletro, al quale la terra, stufa di tenerlo racchiuso in sé o pietosa, permette di uscire allo scoperto; e dal foro, la piazza, desolata guardando dritto tra le file parallele dei portici le cui colonne sono state mozzate a metà dalla lava, chi visita il sito (“il peregrino”, v.276) può osservare da lontano il profilo a forma di conca della montagna (il “bipartito giogo”, v. 277) e il cratere fumante, che ancora minacciano le rovine sparse qui e là. E nella paura della notte buia (“secreta”, v.280) tra i teatri vuoti, tra gli antichi templi distrutti e tra le macerie delle case, dove si riproducono nell’oscurità i pipistrelli, come un fantasma maligno (“sinistra face”, v.284) che si aggira oscuro per antichi palazzi abbandonati, corre la luce della lava mortale che in lontananza tra le ombre si intravede nel suo rossore e colora i luoghi che circondano i resti della città. È così, inconsapevole dell’uomo e delle sue età, che solo lui chiama antiche, del susseguirsi di antenati e pronipoti, che sta la natura, eternamente giovane (“ognor verde”, v.292), e anzi percorre un cammino tanto lungo e lento che essa sembra star ferma e immobile. Cadono nel frattempo i regni, nascono e muoiono gli uomini e cambiano le loro lingue: lei semplicemente non se ne avvede: e l’uomo si attribuisce vantandosi con superbia un’aura di eternità.
[vv. 297-317] E tu, tenera ginestra, che di boschi profumati decori queste campagne spoglie, anche tu presto alla crudele e impietosa potenza della lava sotterranea dovrai soccombere, la quale passando di nuovo sui luoghi già da lei bruciati, stenderà il suo funebre lenzuolo (“lembo”, v. 303) sui tuoi morbidi cespugli. E sarai costretta a piegare sotto la colata assassina, senza poter resistere (“non renitente”, v. 305) la tua testa innocente: ma mai fino ad allora essa è stata piegata per supplicare in maniera vigliacca di fronte a chi l’avrebbe schiacciata; ma mai essa è stata sollevata con folle superbia verso il cielo e gli astri, e neppure verso il deserto, dove hai vissuto e sei nata non per tua volontà ma per caso; ma sei più saggia, ma sei tanto meno debole e insana dell’uomo, poiché le tue fragili generazioni non hai mai creduto poter essere immortali per volere del destino o addirittura di te stessa.
Figure Retoriche
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Apostrofi
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Endiadi
Nelle verifiche e negli esercizi vengono sempre chieste le figure retoriche e la loro spiegazione.
- Commento completo diviso per sezione
- Parafrasi dettagliata
- Figure retoriche complete e spiegate
- Confronti tra opere e autori
- Domande e risposte
- Esercizio interattivo
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Analisi e Commento
La ginestra, o il fiore del deserto fu composta da Giacomo Leopardi nel 1836 a Torre del Greco, nella villa Ferrigni, dove il poeta, debole e malato, si era rifugiato con l’amico Ranieri in seguito a un’epidemia di colera che aveva colpito la città di Napoli, in cui egli aveva trascorso l’ultimo periodo della sua vita. È il penultimo componimento che l’autore scrive prima di morire (seguito in ordine di tempo da Il tramonto della luna) e fu pubblicato postumo nell’edizione dei Canti del 1845 (Leopardi morì infatti nel 1837). La lirica occupa l’ultima posizione nella raccolta ed è fra tutte la più lunga. Per i temi trattati e per la sua forma essa può essere considerata un testamento filosofico-spirituale e una summa del pensiero leopardiano, che nell’ultimo periodo della vita dell’autore giunto ormai a maturazione, contiene una concezione del mondo e delle cose ed una serie di definizioni dei consueti temi leopardiani, come la Natura matrigna e il sarcasmo sulle “magnifiche sorti e progressive” del mondo, divenute proverbiali per la loro efficacia e originalità.
La ginestra è aperta da un’epigrafe (“E gli uomini vollero / piuttosto che le tenebre la luce”) tratta dal Vangelo di Giovanni, che stride violentemente con il contenuto del testo. L’ultimo Leopardi è infatti profondamente disilluso dalle idee di felicità, progresso e modernità e tra i temi maggiori che egli vuole lasciare in eredità ai posteri vi è appunto una profonda critica al suo “secolo superbo e sciocco”, che ai suoi occhi sembra ormai aver scelto delle illusioni per darsi aree di grandezza ed aver rifiutato la verità della misera condizione umana. Tuttavia, tra le righe della poesia, come spesso accade in Leopardi, è sempre possibile leggere uno spirito titanico di lotta contro il Vero e la Natura matrigna, simboleggiato dalla dolcezza della ginestra, pianta anch’essa destinata ad essere distrutta dalle colate laviche dell’ambiente in cui cresce, ma che continua a rinascere nei “deserti” e compiere nonostante tutto il suo ciclo vitale.
Il componimento è suddiviso in sette strofe di lunghezza variabile, ordinate però attraverso una profonda consequenzialità logica. Osservando le ginestre sulle pendici del vulcano, Leopardi avvia un ragionamento di tipo filosofico sul proprio secolo, sull’universo e sugli uomini che nella conclusione ritorna sull’oggetto che vi aveva dato il via.
La ginestra, o il fiore del deserto appartiene, come gran parte dei componimenti che formano l’ultima sezione dei Canti, al genere della canzone libera leopardiana, forma metrica che prende il nome proprio da Leopardi, il quale fu tra i grandi poeti italiani colui che la utilizzò con più efficacia rendendola celebre. A causa della lunghezza e del contenuto filosofico che il poeta tratta, la lirica può essere a tutti gli effetti considerata un poemetto didascalico.
La nostra analisi del testo della Ginestra si chiude con l’analisi stilistica. A livello ritmico e sintattico, la lirica segue un andamento logico complesso proprio perché la riflessione del poeta parte dalla ginestra e arriva a toccare la natura dell’universo e i corpi celesti. Troviamo perciò l’intero componimento strutturato in una sintassi ipotattica, ricca di incisi, interruzioni e parentesi esplicative che in forma metrica si traducono in figure retoriche come l’iperbato, l’anastrofe e lo zeugma (numerosissime nel testo) e un vasto utilizzo di enjambement (sono 213 su 317 versi totali). Il ritmo generale è perciò rallentato e inframezzato ma continuamente mantenuto fluido.
Confronti
La ginestra è la poesia che chiude i Canti e rappresenta, essendo anche pubblicata postuma, l’ultimo approdo dell’evoluzione del pensiero leopardiano. Rispetto ai primi passi, contenuti formalmente dai piccoli idilli giovanili del 1819-21, lo spirito del poeta verso la natura delle cose e il mondo è profondamente cambiato. Le illusioni, per il primo Leopardi, erano una consolazione al senso di infelicità che pervade l’intera sua produzione. Ad esempio, il celebre…
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